Sabato 22 Gennaio 2011 - Ore 11am – Winterton, South Africa – Miguel -24h

Eppure mi avevano detto che da queste parti era estate! Piove da due giorni e mezzo, da quando, dopo un viaggio a dir poco accidentato, ho messo piede in quest'area a pochi passi dal confine con il Lesotho. Due giorni di riunioni, di sveglia presto e di a letto tardi. Corso solo per una decina di chilometri su di un saliscendi spacca gambe. Meno male che non c'è fuso: solamente un'ora avanti rispetto a Roma. Termino l'ultima riunione con anticipo rispetto alla tabella di marcia.

Forse ce la faccio. Se agisco con rapidità e destrezza forse riesco a partecipare alla gara alla quale ogni anno non voglio mancare: la Corsa di Miguel.

Rapidità! Devo rapidamente, nell'ordine: Chiamare Lufthansa per anticipare il volo di domani. Non si tratta esattamente di un Roma-Milano e quindi la disponibilità di posti non è così scontata. Fatto! Posto disponibile e nessuna penale. Organizzare un trasporto da questo remoto luogo a Johannesburg (per gli amici, Joburg). Quattro ore e trenta di viaggio che all'andata mi hanno quasi ammazzato. Fatto! Meno male che Linda ha fatto il miracolo. Correre in camera, rimettere in valigia le quattro cose che mi sono portato e correre a fare il check-out. Il minivan parte tra 30 minuti. Fatto! Comprare qualche vettovaglia per il tragitto. Da queste parti gli Autogrill non vanno molto di moda. Fatto! Correre in bagno ed espletare l'espletabile ora. Motivo? Vedi sopra... Fatto pure questo...

Sabato 22 Gennaio 2011 – Ore 11.30am – Winterton, South Africa – Miguel -23h30'

A questo punto siamo pronti. Salgo sul minivan e, con mio sommo sollievo, vedo che l'autista non è lo stesso dell'andata: si era perso tre o quattro volte e si rifiutava di usare il GPS in dotazione. Un fenomeno! L'albergo mi allunga un pacco viveri anemico. Meno male che ho fatto scorte personali. Si parte con un italianissimo quarto d'ora accademico di ritardo. L'autista si presenta: Norman. Speriamo che non faccia di cognome Bates... Anche perchè ad ogni mia parola si uccide dalle risate, non so per quale motivo. È inquietante. Comincio a pensare che forse era meglio quello che si perdeva... Traffico nullo, strada accidentata ma non troppo, velocità da sconsiderato. Continua a ridere mentre ballonzoliamo. La lattina di coca-cola che ho oculatamente portato con me mi esploderà in faccia nel momento in cui l'aprirò. Almeno ha smesso di piovere.

Sabato 22 Gennaio 2011 – Ore 1.30pm – Da qualche parte tra Winterton e Joburg, South Africa – Miguel -21h30'

Abbiamo appena passato un valico posto a circa mille metri di quota. Il tratto appenninico dell'A1, in confronto, è la salitella del camping alla Roma-Ostia. Persone attraversano l'autostrada come se si trovassero in un'isola pedonale di un qualsiasi centro città. Il traffico è sempre inesistente, a parte giganteschi camion con rimorchi multipli che arrancano sulle salite. Norman ha smesso di ridere e guida concentrato. Sorseggio la coca- cola che, per fortuna, non ha emesso altro che un blando sibilo all'apertura. Sonnecchio. Il paesaggio è bellissimo. Mancano ancora almeno 2 ore per arrivare a Joburg.

Sabato 22 Gennaio 2011 – Ore 4.15pm – Aeroporto di Joburg, South Africa – Miguel -18h45'

Dopo quattro ore quarantacinque minuti di minivan, una sola sosta per espletare, il culo piatto e lo stomaco in disordine finalmente arriviamo all'aeroporto di Joburg. Saluto Norman che forse si aspetta una mancia. Non ho un Rand spiccio e quindi faccio il vago.

Norman non ride.... Check-in, controllo passaporti, controllo di sicurezza, blando shopping (nonostante un favorevolissimo tasso di cambio) e sonnellino nella saletta di attesa. Sento di aver adempiuto correttamente ai sacri rituali del perfetto viaggiatore e questo mi fa stare sereno. Imbarchiamo. Sono le 7.30pm e sono già passate otto ore da quando sono partito. Me ne aspettano almeno un'altra decina fino a Francoforte. Mi fa male la testa.

Notte tra Sabato 22 e Domenica 23 Gennaio 2011 – Orario indefinito – Da qualche parte a 11.000 metri sopra al continente africano – Miguel -“non so di preciso quanto”.

Dormo.

Domenica 23 Gennaio 2011 – Ore 5.15am

Approcciando Francoforte (non nel senso che cerco di rimorchiarla.... Ok, pessima battuta. Ma concedetemi le attenuanti...), Europa - Miguel -4h45'

La mano leggera dell'assistente di volo mi scuote dallo stato pseudo soporifero di dormiveglia nel quale mi sto agitando da qualche minuto. Non c'è neanche il tempo per la colazione (avevo espressamente chiesto di farmi dormire il più possibile) in quanto stiamo toccando terra. Preciso come un orologio svizzero l'Airbus 340 atterra sulla umida e semighiacciata pista dell'aeroporto di Francoforte in perfetto orario. L'antidolorifico preso prima di addormentarmi ha fatto effetto e la forma generale non è malaccio. All'andata stavo nettamente peggio. Alle 5.30 del mattino l'aeroporto è già abbastanza frequentato ma le formalità passano tutto sommato fluidamente. Mi infilo nella saletta “Welcome” della Lufthansa e mi strafogo di pane e nutella. Tanto non so nemmeno se ce la farò ad arrivare in tempo per la partenza, e allora tanto vale... A pancia piena mi appropinquo al Gate del volo per Roma.

Domenica 23 Gennaio 2011 – Ore 7.00am – Gate 34 dell'aeroporto di Francoforte, Europa – Miguel -3 ore

La partenza del volo è prevista per le 7.25am e stiamo ancora aspettando che le operazioni di imbarco comincino. Va bene l'efficienza tedesca, ma qui si esagera!... Poi mi guardo intorno e noto che non saremo più di una quindicina di passeggeri. Tempo per imbarcarli tutti: meno di 10 minuti. Infatti alle 7.20am l'aereo stacca dal Gate e si dirige verso la pista di decollo. Il pilota dice orgoglioso che atterreremo in orario, il che mi agita un po': l'orario stimato è le 9.10am. Speravo ad un minimo di anticipo, visto il giorno festivo e l'ora. Chiamo la Cooperativa Airport per prenotare l'auto. L'Airbus 321 mezzo vuoto decolla alle 7.37am. Il conto alla rovescia entra nella sua fase critica.

Domenica 23 Gennaio 2011 – Ore 8.55am – Sopra Settebagni (o almeno credo), Europa – Miguel -1h5'

Devo essermi assopito. Guardo dal finestrino e non riconosco l'usuale morfologia del territorio. Quella sotto di noi sembra la A1 e, normalmente, ci dovrebbe essere la A12.. Poi capisco: atterrerà da sud. Porc...@#!!!##@@..... L'atterraggio da nord mi avrebbe permesso di guadagnare una decina di minuti, ed in questo caso una decina di minuti possono davvero fare la differenza. Cerco di non pensarci. Qualche saggio asiatico diceva: “Se c'è soluzione, perché preoccuparsi? Se non c'è soluzione, perché preoccuparsi?” (una volta l'ho detta al mio capo. Momenti mi licenzia....). Mi butto indietro nel sedile e aspetto paziente il rumore dell'apertura del carrello. Alle 9.04am lo sento.

Domenica 23 Gennaio 2011 – Ore 9.07am – Pista 16L dell'aeroporto di Fiumicino, Europa – Miguel -53'

Touch down. Ora devo solo sperare nell'efficienza dei servizi a terra di Fiumicino. Oh mio dio!...

Domenica 23 Gennaio 2011 – Ore 9.15am – Gate B9 dell'aeroporto di Fiumicino, Europa – Miguel -42'

Efficientissimi. E corro. Semplicemente corro. Lo prendo come una sorta di riscaldamento e corro. Ho il telefono in mano per chiedere alla cooperativa Airport di mandarmi la macchina direttamente al Terminal e corro, passo la postazione della guardia di finanza e corro, esco dal termina e corro. Mi infilo dentro la macchina. Sudo.

Domenica 23 Gennaio 2011 – Ore 9.21am – Dentro l'auto verso Roma, Europa – Miguel -35'

Spiego ad un rilassato autista la situazione. Buttiamo giù un piano operativo. Passiamo dall'Aurelia, dalla Flaminia o dalla Salaria? Decidiamo per la Flaminia: meno semafori. Ognuno di noi si concentra sul compito assegnato. Lui si mette a 170 km/h, io comincio a chiamare Orazio per dirgli che arrivo (“non ce la farai mai”, mi dice... Tzè). Poi mi spoglio per indossare il completo da corsa. L'autista non ci fa caso più di tanto, anche se sono nudo come un verme... Fortunatamente è domenica mattina e per strada non c'è nessuno. Ci infiliamo sulla Flaminia come una lama calda nel burro.

Domenica 23 Gennaio 2011 – Ore 9.47am – Uscita “Campi Sportivi” dell'Olimpica, Europa – Miguel -11'

Ce l'ha fatta. Il mitico autista della cooperativa Airport mi ha fatto arrivare in tempo. Schizzo fuori dall'auto lasciando borse e bagagli all'interno. Gli dico di aspettarmi un'oretta. Corro verso il Gazebus Magnus incitato anche da un amico che aveva ascoltato la conversazione telefonica tra me e Orazio (grande Ale!). Mauro si fida e mi fornisce prontamente il nuovo completino anche se non sono arrivato con i soldi in bocca. Spillaggio del pettorale e ci scappano pure 3' minuti di riscaldamento. Incontro gli amici della società e ci auguriamo buon anno.

Domenica 23 Gennaio 2011 – Ore 10.00am – Appena fuori lo Stadio “Nando Martellini”, Europa – Miguel -0'

Partenza. E, come diceva Totò, “ho detto tutto”.....

Domenica 23 Gennaio 2011 – Ore 10.41.46am – Stadio “Nando Martellini”, Europa - Miguel +41'46"

La gioia di avercela fatta, di avere anche quest'anno corso per una causa che reputo importante, di avere ancora una volta onorato e ricordato la figura di Miguel Sanchez, superano di gran lunga la gioia di aver fatto il mio miglior tempo di sempre alla “Corsa di Miguel”.

Ciao Miguel, ci si rivede sulle strade del mondo e, se tutto va bene, il prossimo anno qui. Stesso luogo. Stessa ora. Da dovunque debba provenire.

P.S. Un grazie speciale ad Orazio per avermi aspettato. E per averci sempre creduto :-)

Claudio Feliziani

Ho corso cinque maratone, almeno una decina di mezze maratone ed una discreta quantità di gare e garette dai 5 ai 15 km.

Ebbene, solo in occasione della Roma-Ostia i miei piedi ricevono la visita delle signore vesciche.

Già questo sarebbe sufficiente a farmi desistere, any given year, dal correre questa "mezzamaratona più partecipata d'Italia".

E invece no, io mi ostino. Perché? non lo so.

Forse perché la maglietta del pacco gara è sempre carina, ma questa ragione cozza con l'occhiata omicida che mia moglie mi riserva ogni volta che introduco in casa ulteriori capi di abbigliamento podistici.

Forse perché la Roma-Ostia è stata la prima gara ufficiale alla quale io abbia partecipato, ma questo melenso sentimentalismo cozza con la natura pragmatica tipica delle gare podistiche.

Forse perché la gara si tiene a Roma e sarebbe un peccato perdere l'occasione di correrla, ma questa puerile considerazione cozza contro la consapevolezza che a Roma e dintorni ci sono decinaia e decinaia di gare.

Forse perché mi lascio irretire dai 7 km in delizioso falsopiano in discesa che il percorso propone dopo il decimo km, ma la velleitaria convinzione che questo faciliti il personale cozza contro la famigerata salita del camping ed il non meno famoso ultimo biscotto di 4km, ormai per me un incubo inferiore solo all'idea di assistere ad un concerto di Gigi d'Alessio.

Insomma, non c'è una ragione specifica ma tanto lo so che l'anno prossimo ci ricascherò come un pollastro.

P.S. Noi romani siamo famosi per il nostro disincantato cinismo che ci permette di affrontare le vicissitudini con sufficiente distacco e ironia: quando qualcuno è brutto e glielo vogliamo far notare diciamo frasi tipo: "sei brutto come er peccato" o "sei più brutto de 'na spinta pe' scale" o anche "sei più brutto de 'na perquisizione della polizia alle due de notte".

Ecco, da ora in poi io dirò: "sei più brutto degli ultimi 4 chilometri della Roma-Ostia..."

Claudio Feliziani

Correre una gara dopo aver passato più di 3 settimane senza allenamenti, per di più passate in gran parte sugli sci, non è molto saggio; farlo dopo le festività natalizie, con tutto quello che si è ingurgitato avidamente, è vagamente velleitario; se poi questa gara è la Pavona Run in un giorno di pioggia e vento, è puro masochismo.

Ma tant'è: la voglia di gareggiare, e di farlo per la prima volta con i colori della nuova società, è più forte di tutto.

Alle 10 in punto sono schierato sulla linea di partenza, circondato da un migliaio di altri podisti, tutti più o meno con la panzetta a forma di pandoro. Ha smesso di piovere ma l'acqua ha lasciato il posto ad un vento tagliente e freddo che insulta gambe e braccia, soprattutto a quelli come me estremamente ottimisti (sono in canotta e magliettina a maniche corte).

Ho corso la Pavona Run per la prima volta lo scorso gennaio e quest'anno mi accontenterei di migliorare il mio record sul circuito. Le gambe, dopo più di 10 giorni di sci, hanno assunto una vaga forma sciancrata ed una durezza pari al carbonio (in pratica sono due Atomic da gigante...) ma non mi preoccupo più di tanto. Decido di andare come mi sento senza forzare.

Parto tranquillo nelle retrovie e non mi affanno troppo a passare i bradipi che partono in testa convinti di essere lepri, alla prima salita li senti già sbuffare come locomotive. Tratti di saliscendi, in parte a favore ed in parte a sfavore di vento, passano senza particolari disagi. Arrivo al primo ed unico rifornimento dove vedo gente che, nonostante il freddo, si getta l'acqua dietro la nuca: certo che noi podisti siamo gente ben strana.

Intorno all'ottavo chilometro un autotreno esce da uno stabilimento, taglia completamente il serpentone dei corridori e si immette nella carreggiata con grave rischio per chi gli corre vicino. Nessuno dell'organizzazione sembra accorgersene (unica pecca, a mio avviso, di una gara organizzata in modo egregio). Per il resto gli automobilisti sono molto disciplinati ed aspettano pazientemente il passaggio dei corridori

Senza patemi arriva l'undicesimo chilometro e decido di accelerare leggermente: il polpaccio destro mi redarguisce severamente, facendomi tornare su ritmi più ragionevoli. Taglio il traguardo in 53'04'': miglioro lo scorso anno (soprattutto perché lo scorso anno gli ultimi 800 metri li avevo fatti strisciando mestamente) e tanto mi basta.

Ora scusate ma vado a rifare le lamine ai quadricipiti..... Ci si vede da Miguel.

Claudio Feliziani

L'aereo tocca terra leggero frenando dolcemente verso sinistra, dove riposa placido ed illuminato il terminal 2. Amburgo è bianca, esattamente come l'avevo lasciata venerdì scorso.

Ripeto meccanicamente i gesti che succedono ogni mio atterraggio nella città anseatica: corridoi, uscita, taxi, istruzioni all’autista, affossamento nel sedile posteriore, ecc...

Ma stavolta decido di far fermare l'auto all'inizio della via di casa, a 250 metri dal mio portone.

Pago, scendo, raccatto il trolley e rimango lì mentre la macchina si allontana. Nevica.

E' una neve leggera e fitta che stria di bianco le strade deserte.
Guardo la via: stretta, alberata, bianca e silenziosa. Bellissima, come al solito.

Comincio a camminare cercando di sentire i metri che piano piano scorrono sotto i miei piedi. Ne devo percorrere 250 e voglio stabilire un contatto con ciascuno di essi; voglio carpirne l'essenza.

Si sente solo il rumore del trolley che scricchiola sul selciato ricoperto di ghiaccio; la neve continua a cadere morbida e irriverente posandosi sul cappotto e tra i capelli.

Quanto sono lunghi 250 metri?
Stasera sono un soffio di vento. Stamattina sono stati lunghi e di sudore. Stasera 250 metri mi separano da casa. Stamattina 250 metri mi hanno separato dall'essere un runner.

Mi mancano 250 metri, poco più di 60 secondi, una manciata di passi. Mi mancano 250 metri per scendere sotto i 40' sui 10.000.

Ci arriverò, mi stanno aspettando.

Claudio Feliziani

Non so perchè ma ogni volta che penso alla capitale della Svezia mi viene in mente l'indovinello che riguarda l'ipotetico nome della più famosa prostituta scandinava.... Il fatto poi di ritrovarmi con i faccioni di Borg e degli ABBA, che mi danno il benvenuto, schierati in pompa magna nei corridoi di uscita dell'aeroporto non favorisce il contenimento di un sardanico sorrisetto di scherno.

Stoccolma mi accoglie come al suo solito: Arlanda Express (dovevo arrivare a Stoccolma Stavska ma l'anima de li mejo mortacci de Ryanair!!!! Viva la Lufthansa), pioggerella sottile e vaporosa, canali, ponti e stradine.

Il fatto che sia venerdì sera mi permette di apprezzare fauna locale di diversa dimensione e foggia pronta per ubriacarsi indegnamente secondo i rigidi dettami della tradizione nordeuropea.

La mia azienda partecipa alla mezza di Stoccolma con un programma di charity e, saputo dell'iniziativa, ho prontamente aderito: una bella mezza maratona, piatta, con un centinaio di colleghi e colleghe (incluso il numero due mondiale del gruppo), ottimamente organizzata in una città piacevole da visitare è una tentazione difficile da resistere per un podista "addicted" come me. Si corre di sabato, alle 16, orario e giorno inusuali per le nostre abitudini. Passo la mattina visitando luoghi della città non ancora conosciuti, pranzo in modo parco in un asettico McDonald (come diavolo si fa ad alimentarsi 3 ore prima di una gara con il McChicken menu? Dovevo essere posseduto dallo spirito di Ronald). Appuntamento con la squadra all'albergo, foto di rito, ignobile lecchinaggio al numero due (mio dio come sei in formaaaaa, oggi sicuramente mi darai almeno dieci minutiiiiii, il tuo ultimo intervento in videoconferenza è stato di forte ispirazione per meeee...), foto di gruppo e poi via verso la zona di partenza.

Mi hanno relegato nell'ultima griglia, quella che parte alle 16.30, in quanto la collega che ha proceduto all'iscrizione non ha comunicato il mio tempo. In un impeto di follia comincio a cercare i pacer dell'ora e trenta per cercare di accodarmi. Ce ne sono due e sono entrambi nelle prime due griglie. Non ci sono controlli ai varchi e mi infilo molto italianamente nel gruppo che parte alle 16.05. Mi francobollo al pacer tanto che egli comincia a guardarmi con malcelato sospetto... Partiamo in una ventina intorno a questo esile giovanotto svedese dalla faccia timida. I primi cinque chilometri mi fanno subito capire che di piatto questa mezza maratona ha ben poco. Saliscendi non particolarmente impegnativi ma spezzaritmo si succedono con una certa regolarità. C'è molto pubblico ai lati della strada, più di quanto me ne aspettassi e sono anche particolarmente rumorosi. Il tempo è ideale: 15 gradi, coperto, assenza di umidità e vento. Seguirò il pacer: finchè ce la farò, finchè non stramazzo cercherò di stargli attaccato. Il mio personale di 1h33m33s è li, immobile a sfidarmi. Tutti quei tre stridono come un'unghia su di una lavagna intonsa.

Mezza mezza maratona: il ritmo tiene e da venti siamo passati ad una decina di tallonatori del pacer. Ce n'è uno che odio: è un pennellone che avrà al massimo 25 anni che corre caracollando a destra e sinistra. Continua a venirmi addosso con scandinava efficienza regolarità e metodo, mi passa davanti, di dietro e di fianco senza trovare una sua dimensione. Meno male che al 16mo scoppia come un rauto a capodanno e me lo levo dagli zebedei.

Passiamo al 15mo chilometro in una zona della città molto suggestiva ma con passaggi stretti, molti passanti che intralciano la via e molti corridori lenti che arrancano sbuffando. Il pacer cambia direzione come una gazzella inseguita da un coguaro e faccio fatica a stargli dietro. Ho paura di non farcela ma finalmente i cambi di ritmo e direzione finiscono e ricominciamo a correre ad andature costanti. Al 17mo rimaniamo in tre: io, il pacer ed un altro giovanotto dalle gambe magre ed il volto scavato, carta d'identità di chi della corsa ha fatto più di un hobby sporadico. Il pacer ci guarda e ci invita ad accelerare, vede dalla nostra faccia che ancora ne abbiamo e vuole sollecitarci. Gli chiedo quante salite mancano e quando sento che tra il 17mo ed il 19mo ce ne sono due abbastanza impegnative decido di rimanere con lui. L'altro parte e prende una trentina di metri; rimaniamo io ed il pacer fissi sui nostri 4'15”.

La salita del 19mo la faccio guardandomi le scarpe, non è particolarmente lunga ma la pendenza non è così esigua ed ho il terrore di rallentare troppo. Come scavalliamo il pacer mi molla un paio di pacche sul braccio e comincia ad urlare: "Go, go, don't wait for me. You can make it". Gli credo e accelero, anche perchè c'è una discesetta che infonde una certa fiducia circa le mie possibilità. Supero, supero, supero. Passo il ventesimo con le ali ai piedi, incontro un lazialotto della Lazio Atletica e lo invito ad attaccarsi a me. Continuo a superare, affronto l'ultima blanda salitella prima dell'arrivo con eleganza e leggiadria e mi butto verso l'arrivo mulinando le gambe in falcate ampie ed armoniose... ('nsomma...).

Guardo il cronometro mentre passo sotto la linea di arrivo: 1h28m57s (poi corretto con l'ufficiale 1h28m52s). Ululo di gioia. Entro in un territorio che per me era impensabile solamente quattro anni fa: poco meno di due ore (1h58m e svariati secondi) alla mia prima Roma-Ostia, quella del 2006. I tre scompaiono magicamente e lo stridio delle unghie cessa.

Seguo il flusso, mi abbevero, mi cambio e me ne torno felicemente in albergo fiancheggiando a ritroso il percorso dell'ultimo chilometro e mezzo, sostenendo ed incitando i corridori.

Sono il primo della mia azienda (sempre scarso rimango....) ma cerco di nasconderlo al numero due per evitare sgradevoli ritorsioni (Feliziani, abbiamo una bellissima opportunità per lei in Iraq...). A cena brindiamo, ridiamo e scherziamo e ci scambiamo esperienze di gara e risultati. Cosa sarebbe una gara senza questi momenti?

Claudio Feliziani

Le gambe

Riesco a sentire l'inno nazionale solamente alla fine, quando una solitaria folata di vento spinge nella mia direzione il suono degli altoparlanti. Sono così lontano dalla linea di partenza che impiegherò più di cinque minuti per raggiungerla e superarla; da dove sono ora neanche la vedo. Una decina di elicotteri volteggiano rapaci sulle nostre teste a caccia di suggestive immagini, mentre un gigantesco e solitario bielica vira stretto verso l'oceano a pochi metri da terra, facendoci sobbalzare e beccandosi poliglotti improperi.

Torniamo alla nostra concentrazione e mi meraviglio di quanto silenziosa possa essere una folla di questo tipo.
Altri due serpentoni simili a quello nel quale sono io si snodano a pochi metri di distanza: 39.000 persone in silenzio e concentrate in attesa che il cannone spari. Joe, il pacer, è lì vicino: dovrà dare il giusto ritmo a me e ad altre 5.000 persone. La vedo dura; per lui e per noi. La temperatura è bassa ma non sento freddo, nonostante l'abbigliamento decisamente fuori stagione.

Lo sparo arriva stentoreo e rimane nell'aria per alcuni secondi, liberando le urla e le energie a fatica contenute che aspettavano da mesi, se non da anni, questo momento. Si urla e ci si muove lentamente. Giro intorno alla fila di pullman che fino a ad ora mi ha impedito la visuale ed eccolo che emerge, con i suoi svettanti piloni e la sua sinuosa gobba: il "Da Verrazano (una sola z) narrows bridge".

Le note di "Born to Run" di Bruce Springsteen, sparate a tutto volume, riempiono l'aria di elettricità ed il corpo di adrenalina. Click! Il rituale scatto del cronometro accompagna il passaggio sotto la starting line, ricordandomi che da ora si fa sul serio.

Il ponte vibra sinistramente sotto il passo cadenzato dell'enorme massa di persone; la struttura ondeggia talmente tanto che ogni tanto mi ritrovo contro tempo con l'appoggio del piede. File di fotografi appollaiati sullo spartitraffico cercano di catturare il momento scattando foto come forsennati. Oscar e Franco, conosciuti alla partenza, sono qualche metro avanti: cercheremo di correre insieme, per quanto ci sarà possibile.

Calpesto roba soffice: le migliaia di indumenti lanciati in aria alla partenza giacciono ora a terra, vittime della ricerca di tepore nelle tre ore di stazionamento nei corral di partenza. Migliaia di dollari (vedo a terra anche capi tecnici firmati molto costosi) giacciono in attesa di essere recuperati dai volontari e dati in beneficenza.

E' un tripudio di Frank, Steve, Hubert, Klaus, Sergio, Inga, Sara e di chiunque abbia avuto l'accortezza di mettere il suo nome sulla maglietta. Improbabili faccioni di mogli grassocce e mariti adiposi adornano le maglie di aitanti e meno aitanti concorrenti. Più avanti supererò un uomo con un'ecografia pre-natale appuntata sulla schiena. Moltissimi hanno un adesivo con su scritto "I run for" ed hanno di seguito indicato tutte le categorie di persone immaginabili (figli, madri, padri, suoceri, vicini, ecc...). Alla mia sinistra una minuta biondina urla dalla sua maglietta "Impeach Bush": le sorrido in modo complice. Un pompiere in assetto operativo, con tanto di bombola per l'ossigeno sulla schiena, ed un soldato in mimetica, anfibi e zaino a tracolla, arrancano sulla rampa in nome di chissà quale voto o promessa. Ci sono anche i Blues Brothers, tutti neri, in giacca, cravatta, cappello e occhiali. Incontrerò gente con gambe artificiali di varia foggia, portatori di handicap più o meno gravi, ottantenni che rifiuteranno sdegnati l'aiuto dei volontari dell'associazione Achille's (che dà supporto a tutte queste categorie di persone lungo il percorso); tutta gente che, in un modo o nell'altro, la gara l'ha già vinta.

Alla fine del ponte, corso in pratica senza pubblico, compaiono le prime case ed i primi spettatori.

Che lo spettacolo abbia inizio.

Migliaia di individui festanti costeggiano il percorso cantando, urlando il tuo nome scritto sulla maglietta, dandoti da mangiare, da bere, da asciugare, battendo le mani, sventolando bandiere e cartelli; file di bambini e adulti tendono le mani invitandoti a battere il cinque; complessi suonano il jazz, il blues, il rock 'n roll, l'heavy metal: manca solo Mozart, ma non escludo la sua presenza solamente per il fatto di non averlo sentito personalmente.

Per mantenere un ritmo costante mi ero ripromesso di rimanere concentrato sin dall'inizio, ma non ci riesco: è troppo il calore che questa gente sprigiona. Mando in malora i buoni propositi e comincio a gigioneggiare battendo il cinque con chiunque (persino con un austero poliziotto), ringraziando tutti quelli che urlano "go-Claudio-go", abbassandomi per salutare bambini che conteggiano metodicamente quanti "high five" riescono a battere; agito il pollice in direzione di chi mi incita, scarto a destra e sinistra per rimanere con Oscar e Franco, spreco energie. Joe, come sospettavo, è stato inghiottito dalla bolgia e di lui non resta traccia.

Centinaia di tricolori sventolanti accendono ancora di più il mio entusiasmo; mi accorgo dopo un po' che sono messicani, ma poco importa: urlo "gracias" invece di "grazie". Siamo solamente all'ottavo chilometro ed io sono già ubriaco di questo fantastico clima.

Continuo spedito; le gambe girano che è un piacere ed il ritmo sembra essere solamente un po' più veloce di quello pianificato. L'inesperienza mi fa stare tranquillo: solo più tardi capirò l'errore.

Improvvisamente la folla scompare e si corre nel silenzio. Mi guardo intorno con aria interrogativa e vedo solamente gente vestita di nero che cammina spedita con delle borse di plastica nelle mani: sono palesemente ebrei ortodossi. Il mio vicino capisce la mia perplessità e sentenzia: "Quartiere ebraico" senza aggiungere altro.

Diciottesimo, diciannovesimo, ventesimo chilometro. Arriva la mezza: Pulaski Bridge. E qui cominciano i c**** (scusa Maureen).

La rampa del ponte che porta da Brooklyn al Queens non è ripida, ma è pur sempre salita; da qui il percorso si fa meno lineare, più nervoso, con meno gente ai lati della strada e con bruschi cambi di direzione. Siamo ancora intruppati come una mandria e correre non è agevole.

Improvvisamente arriva lui, l'incubo di tutti noi, lo spauracchio che si è agitato davanti ai miei occhi durante quasi tutti gli allenamenti degli ultimi mesi: il Queensboro Bridge. Sulle sue infide rampe si sono spenti gli ardori di migliaia di podisti, ed anche oggi reclama la sua giusta dose di vittime. Oscar e Franco li ho persi da un pezzo: mi tocca affrontare il Minotauro in solitudine. Abbasso la testa, accorcio il passo e salgo.

E' buio. In alcuni tratti non riesco neanche a vedere chi ho davanti e procedo con il braccio teso in avanti per evitare tamponamenti. I metri sembrano non passare mai e molte persone sono ferme ai lati con le mani nei fianchi; altre camminano lentamente sorseggiando miracolosi intrugli. Finalmente scartiamo a sinistra e cominciamo la discesa: abbasso le braccia lungo il corpo, tiro il fiato e mi lascio andare. Manhattan è a due passi e l’incitamento della sua gente comincia a farsi sentire.

Monta il boato di migliaia di persone assiepate dietro le balle di paglia (come fossimo delle formula uno) lungo la curva di ingresso alla First Avenue. Esco alla luce del sole agitando le braccia verso l'alto in segno di incitamento, e la folla risponde strillando "go 'Laudio', go!". Strana pronuncia del mio nome. Abbasso gli occhi e mi accorgo che la "C" è rimasta sul ponte: meglio quella dei polmoni.

La First Avenue si stende implacabile davanti ai miei occhi: più di sei chilometri di saliscendi impietosi che, al pari del Queensboro, hanno stroncato più di un'ambizione. Improvvisamente mi rendo conto che le gambe non girano più come prima: in un modo o nell'altro il ponte dal nome del menga ha riscosso il suo tributo anche da me.

Mi arrabbio; ce l'ho con le mie gambe. Ma come, dico io, vi ho allenato come due gambe da keniano e voi mi trattate così? E' vero, vi ho fatto uscire di casa alle cinque del mattino, vi ho trascinato fuori anche a temperature ignobili, vi ho ammorbato con il pallosissimo anello di due chilometri vicino casa; ma vi ho anche fatto calpestare le strade di mezzo mondo: il Golden Gate, il Quartiere Francese di New Orleans, il Magnificent Mile di Chicago, le sponde della Senna e tanti altri posti che sarebbe troppo lungo elencare. E voi mi mollate ora, proprio quando ho più bisogno di voi? Ingrate, ingrate e ingrate! Non ne vale la pena. Con voi farò i conti dopo: ora è meglio passare il testimone.

La testa

In un suo brano, Morrissey si chiede se è il corpo che governa la mente o se è la mente a governare il corpo. La risposta lui non la dà, ma io adesso la devo cercare in fretta, e deve essere per forza la seconda che ha detto: è la mente che deve governare quelle due disgraziate là sotto, altrimenti sono c**** (scusa Maureen).

Aumento la concentrazione. La gente continua ad incitarmi, ma io rispondo sempre meno. A metà della First non rispondo proprio. Mi muovo cercando di risparmiare energie e limitando al massimo i movimenti.

File di volontari in tunica arancione si sono prodigati sin dal primo chilometro, nei punti di ristoro ufficiali, per alleviare la sete dei concorrenti; solo ora però li cerco continuamente con gli occhi per non fallire un rifornimento.

Cominciano a presentarsi per l'incasso i facili entusiasmi di Brooklyn. Tengo duro e, un passo via l'altro, supero centinaia di persone che procedono rantolando, finché, senza rendermene conto, finisce il saliscendi. Una donna agita un cartello con su scritto "welcome to the Bronx". Parto all'attacco del penultimo ponte calpestando improvvisamente di nuovo qualcosa di morbido: questa volta è uno strato di moquette steso sul ponte per evitare il passaggio sulla griglia di metallo. Ed io che pensavo che il Bronx fosse un quartiere malfamato!

Continuo rimanendo concentrato come un detersivo sgrassante; la testa obbliga le gambe al movimento e loro fanno una fiera resistenza. Ed è a questo punto che una incongruenza toponomastica rischia di mandare tutto a put**** (scusa Maureen): se la First direzione nord era tendenzialmente in salita, la Quinta direzione sud, ad essa parallela, dovrebbe essere tendenzialmente in discesa: manco per il c**** (Maureen ormai non ci fa più caso)!

Una salita si staglia beffarda davanti a me e anche la testa vacilla. Cerco di non pensarci e continuo a correre. Arrivo in cima, giro a destra meccanicamente e mi ritrovo dentro Central Park. La folla è gigantesca, ma è come se non la vedessi. Tante altre persone sono nella mia stessa condizione: forse è proprio per questo che una figlia premurosa ha scelto questo luogo per innalzare un cartello "dad, don't puke". Spero che "dad" non sia questo tizio paonazzo di fianco a me.

Corro in modo disarticolato e comincio a scendere lungo i viali del parco, ma non c'è niente da fare: è lì, vicino alle famose papere che non si sa di preciso dove vadano d'inverno quando il lago è gelato, che la testa segue le gambe nel limbo dell'ingratitudine. Mancano meno di tre chilometri. Mi fermo.

Il cuore

Mani sui fianchi, sputo fatica e tossisco sudore. Cammino lentamente lungo il bordo del percorso e centinaia di persone cominciano a superarmi. Rialzo la testa e improvvisamente rivedo il pubblico: le persone sono di nuovo quelle di Brooklyn e urlano forte il mio nome. Mentono spudoratamente gridandomi "looking good"; mi incitano con calorosi e violenti "almost done". E' quell'"almost" che mi sta uccidendo, dannazione!

Riparto.

Le gambe ormai non le sento più, ma non importa: se insieme alla loro degna compare della testa hanno deciso di abbandonarmi, allora non rimane che affidarsi a chi non tradisce mai: il cuore. Ma la testa ha un sussulto: lei che dovrebbe incitarmi, mi invita di nuovo a fermarmi. I grattaceli di Central Park South sono ancora lontani e lei mi dice che non li raggiungerò mai.

Mi fermo di nuovo: mancano meno di due chilometri.

Faccio pochi passi e, faticando come un bufalo, riparto verso i grattacieli. Li raggiungo sfanc****** la testa, ma uscendo da Central Park mi si para di fronte la salita verso Columbus Circle.

Schianto e mi fermo per la terza volta: manca un chilometro e non ce la faccio più.

Capisco ora come devono sentirsi quelle povere automobili che terminano il carburante e si fermano al lato della strada nonostante le nostre imprecazioni. Ho finito la benzina, non c'è niente da fare.

"Claudio, coraggio, non ora! Non ora!".

La frase in italiano arriva dalla mia destra; volto stancamente la testa e lo vedo: giovane con famiglia al seguito, assiepato con altre migliaia di persone di fronte al Plaza, continua a parlare incitandomi. Dall'espressione della sua faccia deduco l'aspetto della mia. Lo guardo negli occhi e improvvisamente il cuore comincia a battere forte: prende il controllo delle operazioni, impartisce ordini, distribuisce compiti. Le gambe si rimettono in moto, la testa si risveglia.

E' come se questa persona avesse scosso la macchina mandando in circolo le ultime gocce di carburante. Riparto. Senza neanche ringraziarlo (e penso che non ne avrò più la possibilità).

La statua di Cristoforo Colombo è sempre là, ma non fa più paura. La raggiungo di slancio e giro secco verso destra.

Seicento metri. Musica assordante proviene da un palco alla mia sinistra; la gente urla e batte le mani. Di nuovo dentro Central Park.

Quattrocento metri. Non sento più nulla, se non il suono dei miei lamenti.

Trecento metri. Comincia l'ultima salita prima del traguardo. Bestemmio. Sapevo che era lì, ma speravo che qualcuno l'avesse spianata nella notte.

La linea di arrivo appare all'improvviso di fronte a me. Gente bizzarra vestita di arancione batte ritmicamente le mani dettando il ritmo; quasi ci sbatto contro.

Cerco, con gesti scomposti, il tasto per fermare il cronometro; lo trovo e lo spingo; credo di alzare le braccia (ho ancora le braccia?).

Beep beep. E’ il suono del chip: ho passato il traguardo. E' finita.

Ho finito la mia prima maratona.

Oltre il cuore.

Comincio a battere le mani sulle spalle di chi mi sta davanti. Loro mi sorridono considerandolo un gesto di congratulazione: non sanno che cerco semplicemente di sostenermi per rimanere in piedi. Guardo la persona vicino a me: vorrei chiedergli in prestito le gambe, perché le mie sono altrove. Lui mi guarda e penso stia per chiedermi la stessa cosa. Lasciamo stare.

Succede tutto velocemente: mi mettono del domopak addosso, lo fermano con un adesivo, mi mettono al collo la medaglia, scattano una foto, mi tolgono il chip dalla scarpa (io non riesco neanche a chinarmi) e mi mandano verso i furgoni per riprendere la sacca con gli indumenti consegnata prima della partenza.

Procedo piano in mezzo ad una folla di uomini stagnolati: sembro il protagonista di "Fuga di mezzanotte" nella cella comune poco prima della fuga (probabilmente intorno alle 11... scusate...).

Fila disumana per prendere la sacca: ho freddo e lancio improperi in italiano. Il mio vicino, del New Jersey, mi chiede la traduzione. Gliela faccio e lui annuisce cameratescamente.

Prendo la sacca e mi danno anche un sacchetto con cibo e bevande. Mangio un paio di mele, bevo acqua fresca, mi metto una felpa, comincio a non sentire più freddo e, miracolosamente, ritornano le gambe. Evito di uccidere il vitello grasso in loro onore, ma sono comunque contento.

Mi ritrovo da solo a camminare verso il pullman che mi riporterà in albergo. Il sole filtra tra i magnifici colori autunnali del parco e illumina i grattaceli appena visibili attraverso i rami bassi degli alberi. Mi accorgo di nuovo della medaglia al collo e la stringo con forza.

Piango: adesso ho la forza per farlo.

Esco dal parco e mi mischio alla folla festante con ancora il domopak addosso. Il sole è caldo, la gente si ferma e mi dice "congratulations".

New York non è mai stata così bella.

Qualcuno ha detto che a quarant'anni un uomo si cerca un'amante o si compra una spider. Io mi sono regalato una maratona.

Claudio Feliziani

New York, 5 novembre 2006. 42,195 km: 3h58m26s

Il 10 ottobre 2021 mi sono recata a Pisa, in occasione della Pisa Half Marathon, per correre la 10km (Pisa Ten) ad essa abbinata.

La motivazione principale che mi ha portata fino a Pisa, per correre 10km (il tassista romano mi ha giustamente chiesto: “Signò…, ma fino a Pisa per correre 10km?”) è stata l’incontro con il mio allenatore Francesco Guerra e con gli amici della squadra da lui fondata CorrereperSempre.

Ovviamente, io, con la mia bella maglia della Laziolimpia, ma circondata dai loro colori neri e rossi, mi sono sentita accolta in questa che considero la mia seconda famiglia podistica.

Sono nata come podista nella Lazio Runners Team poi Laziolimpia, ma tramite un’amica ho conosciuto Francesco Guerra e come avviene quando si crea un bel rapporto con una persona, ho conosciuto anche la sua “famiglia”, sia reale (sua moglie Laura), sia podistica ovvero il Team CorrereperSempre.

Una famiglia podistica acquisita.

Non credo che questo voglia dire voler meno bene alla propria squadra. La Laziolimpia è sta per me ancora di salvezza ed è l’affetto, l’amicizia, la condivisione, l’allenamento di gruppo, le gare con le maglie bianocelesti, le cene, la goliardia. Qualcosa che è diventa nel corso degli ultimi 5 anni, costituente di ciò che sono oggi come essere umano.

Ciò non toglie che a Pisa mi sia sentita accolta, coccolata, apprezzata da un gruppo del quale ammiro l’entusiasmo e la solidità nonostante il team sia nato durante il lockdown (il primo, il più duro) e gli atleti provengano da ogni parte di Italia.

La gara è stata organizzata, sia nella versione breve che lunga, molto bene e nel pieno rispetto delle normative anticodiv, mostrando a tutti che forse siamo sulla buona strada, che dopo un lungo periodo di buio, sta tornando la luce anche in ambito sportivo – amatoriale. L’aver poi contribuito tramite l’iscrizione a un’iniziativa benefica per l’Associazione “Regalami un sorriso ONLUS”, ha reso tutto molto speciale.

Correre sul Lungarno, tra le Cascine di San Rossore e giungere in una delle piazze più belle e spettacolari del mondo è stato il completamento di questa bellissima esperienza di sodalizio, amicizia, condivisione.

I miracoli della corsa in Piazza dei Miracoli.

Viridiana Rotondi

 

Per anni mi sono che detto che un giorno l'avrei fatta, che un giorno avrei tagliato quel traguardo ma ogni volta ero spaventato da quel carico di km che avrei dovuto correre in preparazione.

Poi è arrivata questa maledetta pandemia che ha disorientato tutti e ribaltato completamente le nostre abitudini. Ci ha allontanato gli uni dagli altri e nel momento in cui sono state aperte le iscrizioni alla Maratona di Roma, con partenza all'alba, la nostra ripartenza, non ci ho pensato sopra due volte.

Il primo messaggio è stato per Roberto: "Robè me so iscritto alla Maratona, mo te tocca damme na mano!", il suo "Certo" ha fatto iniziare una vera e propria avventura. La preparazione estiva, nonostante il caldo, è volata via senza particolari patemi e con i lunghi corsi per la maggior parte insieme a Roberto ed Emanuele. Allenamenti che non avevo mai fatto prima di allora: prima 22 km; poi 26 km; 28 km sulle salite dei Castelli Romani; 30 km; 34 km nell'afa agostano di Roma ed ancora 30 km il 5 settembre alla Cortina - Dobbiaco. 

Il sabato prima della gara mi ritrovo ad essere praticamente in trance, un misto tra agitazione, concentrazione, paura ed eccitazione. 

La sveglia è alle 3.30 di notte. Colazione, mi vesto, metto lo zainetto, un bacio a Sara e Flavio e via fuori nel buio. In macchina gli ACDC a tutto volume mi caricano ancora di più, come se ce ne fosse di ulteriore bisogno. Mi incontro con gli altri ragazzi, una foto, due risate e pian piano ci avviamo ognuno verso la propria griglia di partenza: io sono in quella TOP GIALLA. L'alba comincia ad affacciarsi su Roma e la mia concentrazione, ormai, è ai massimi livelli, sono semplicemente al momento della verità...ora tocca a me. 

3...2 ...1 si parte!

i primi km scorrono facilmente, sono in pieno controllo di me stesso e delle emozioni che mi hanno attraversato nelle ultime ore. Lungo il percorso incontro prima Emanuele poi Marco che con i loro DAJE non mi fanno fare altro che accelerare il passo (ho un problema di acciaccamento di vena in questi casi). Al 14 km, come da programma, mi si affianca il mio angelo custode Roberto che esordisce con "AO MA GIA STAI QUA???", effettivamente il passo è più veloce di quel che avevamo programmato e solo più tardi me ne accorgerò effettivamente. Corriamo fianco a fianco con Rob che ogni tanto si esibisce in qualche dribbling alla Luis Alberto per evitare i giudici pignoli. Il passaggio alla mezza maratona è di ben 4 minuti più basso rispetto alle idee iniziali ma, continuiamo cercando di gestire le forze. Il passaggio ai 30 km è semplicemente un qualcosa di fantastico con Iampi, il Kaiser, Viridiana, Paola e Concetto intenti a fare un tifo infernale che mi riempie il cuore.

Dopo poco, però, i primi km sostenuti ad un ritmo veloce si cominciano a far sentire ed iniziano i guai dando il via agli ultimi km corsi con il cuore. Roberto mi incita, i muscoli strillano letteralmente, la benzina è finita ma quello è il mio giorno e niente mi può fermare. Finalmente arriva Piazza Venezia, sento la musica. Lo vedo è l'arrivo, è il momento, il mio momento, il momento che avevo sognato. Ce l'ho fatta e l'unico modo per tirare fuori quelle emozioni è piangere, è tagliare il traguardo in lacrime.

CHI VINCE GLI ALTRI E' FORTE MA CHI VINCE SE STESSO E' POTENTE...IO ORA SONO POTENTE!!!