Le gambe

Riesco a sentire l'inno nazionale solamente alla fine, quando una solitaria folata di vento spinge nella mia direzione il suono degli altoparlanti. Sono così lontano dalla linea di partenza che impiegherò più di cinque minuti per raggiungerla e superarla; da dove sono ora neanche la vedo. Una decina di elicotteri volteggiano rapaci sulle nostre teste a caccia di suggestive immagini, mentre un gigantesco e solitario bielica vira stretto verso l'oceano a pochi metri da terra, facendoci sobbalzare e beccandosi poliglotti improperi.

Torniamo alla nostra concentrazione e mi meraviglio di quanto silenziosa possa essere una folla di questo tipo.
Altri due serpentoni simili a quello nel quale sono io si snodano a pochi metri di distanza: 39.000 persone in silenzio e concentrate in attesa che il cannone spari. Joe, il pacer, è lì vicino: dovrà dare il giusto ritmo a me e ad altre 5.000 persone. La vedo dura; per lui e per noi. La temperatura è bassa ma non sento freddo, nonostante l'abbigliamento decisamente fuori stagione.

Lo sparo arriva stentoreo e rimane nell'aria per alcuni secondi, liberando le urla e le energie a fatica contenute che aspettavano da mesi, se non da anni, questo momento. Si urla e ci si muove lentamente. Giro intorno alla fila di pullman che fino a ad ora mi ha impedito la visuale ed eccolo che emerge, con i suoi svettanti piloni e la sua sinuosa gobba: il "Da Verrazano (una sola z) narrows bridge".

Le note di "Born to Run" di Bruce Springsteen, sparate a tutto volume, riempiono l'aria di elettricità ed il corpo di adrenalina. Click! Il rituale scatto del cronometro accompagna il passaggio sotto la starting line, ricordandomi che da ora si fa sul serio.

Il ponte vibra sinistramente sotto il passo cadenzato dell'enorme massa di persone; la struttura ondeggia talmente tanto che ogni tanto mi ritrovo contro tempo con l'appoggio del piede. File di fotografi appollaiati sullo spartitraffico cercano di catturare il momento scattando foto come forsennati. Oscar e Franco, conosciuti alla partenza, sono qualche metro avanti: cercheremo di correre insieme, per quanto ci sarà possibile.

Calpesto roba soffice: le migliaia di indumenti lanciati in aria alla partenza giacciono ora a terra, vittime della ricerca di tepore nelle tre ore di stazionamento nei corral di partenza. Migliaia di dollari (vedo a terra anche capi tecnici firmati molto costosi) giacciono in attesa di essere recuperati dai volontari e dati in beneficenza.

E' un tripudio di Frank, Steve, Hubert, Klaus, Sergio, Inga, Sara e di chiunque abbia avuto l'accortezza di mettere il suo nome sulla maglietta. Improbabili faccioni di mogli grassocce e mariti adiposi adornano le maglie di aitanti e meno aitanti concorrenti. Più avanti supererò un uomo con un'ecografia pre-natale appuntata sulla schiena. Moltissimi hanno un adesivo con su scritto "I run for" ed hanno di seguito indicato tutte le categorie di persone immaginabili (figli, madri, padri, suoceri, vicini, ecc...). Alla mia sinistra una minuta biondina urla dalla sua maglietta "Impeach Bush": le sorrido in modo complice. Un pompiere in assetto operativo, con tanto di bombola per l'ossigeno sulla schiena, ed un soldato in mimetica, anfibi e zaino a tracolla, arrancano sulla rampa in nome di chissà quale voto o promessa. Ci sono anche i Blues Brothers, tutti neri, in giacca, cravatta, cappello e occhiali. Incontrerò gente con gambe artificiali di varia foggia, portatori di handicap più o meno gravi, ottantenni che rifiuteranno sdegnati l'aiuto dei volontari dell'associazione Achille's (che dà supporto a tutte queste categorie di persone lungo il percorso); tutta gente che, in un modo o nell'altro, la gara l'ha già vinta.

Alla fine del ponte, corso in pratica senza pubblico, compaiono le prime case ed i primi spettatori.

Che lo spettacolo abbia inizio.

Migliaia di individui festanti costeggiano il percorso cantando, urlando il tuo nome scritto sulla maglietta, dandoti da mangiare, da bere, da asciugare, battendo le mani, sventolando bandiere e cartelli; file di bambini e adulti tendono le mani invitandoti a battere il cinque; complessi suonano il jazz, il blues, il rock 'n roll, l'heavy metal: manca solo Mozart, ma non escludo la sua presenza solamente per il fatto di non averlo sentito personalmente.

Per mantenere un ritmo costante mi ero ripromesso di rimanere concentrato sin dall'inizio, ma non ci riesco: è troppo il calore che questa gente sprigiona. Mando in malora i buoni propositi e comincio a gigioneggiare battendo il cinque con chiunque (persino con un austero poliziotto), ringraziando tutti quelli che urlano "go-Claudio-go", abbassandomi per salutare bambini che conteggiano metodicamente quanti "high five" riescono a battere; agito il pollice in direzione di chi mi incita, scarto a destra e sinistra per rimanere con Oscar e Franco, spreco energie. Joe, come sospettavo, è stato inghiottito dalla bolgia e di lui non resta traccia.

Centinaia di tricolori sventolanti accendono ancora di più il mio entusiasmo; mi accorgo dopo un po' che sono messicani, ma poco importa: urlo "gracias" invece di "grazie". Siamo solamente all'ottavo chilometro ed io sono già ubriaco di questo fantastico clima.

Continuo spedito; le gambe girano che è un piacere ed il ritmo sembra essere solamente un po' più veloce di quello pianificato. L'inesperienza mi fa stare tranquillo: solo più tardi capirò l'errore.

Improvvisamente la folla scompare e si corre nel silenzio. Mi guardo intorno con aria interrogativa e vedo solamente gente vestita di nero che cammina spedita con delle borse di plastica nelle mani: sono palesemente ebrei ortodossi. Il mio vicino capisce la mia perplessità e sentenzia: "Quartiere ebraico" senza aggiungere altro.

Diciottesimo, diciannovesimo, ventesimo chilometro. Arriva la mezza: Pulaski Bridge. E qui cominciano i c**** (scusa Maureen).

La rampa del ponte che porta da Brooklyn al Queens non è ripida, ma è pur sempre salita; da qui il percorso si fa meno lineare, più nervoso, con meno gente ai lati della strada e con bruschi cambi di direzione. Siamo ancora intruppati come una mandria e correre non è agevole.

Improvvisamente arriva lui, l'incubo di tutti noi, lo spauracchio che si è agitato davanti ai miei occhi durante quasi tutti gli allenamenti degli ultimi mesi: il Queensboro Bridge. Sulle sue infide rampe si sono spenti gli ardori di migliaia di podisti, ed anche oggi reclama la sua giusta dose di vittime. Oscar e Franco li ho persi da un pezzo: mi tocca affrontare il Minotauro in solitudine. Abbasso la testa, accorcio il passo e salgo.

E' buio. In alcuni tratti non riesco neanche a vedere chi ho davanti e procedo con il braccio teso in avanti per evitare tamponamenti. I metri sembrano non passare mai e molte persone sono ferme ai lati con le mani nei fianchi; altre camminano lentamente sorseggiando miracolosi intrugli. Finalmente scartiamo a sinistra e cominciamo la discesa: abbasso le braccia lungo il corpo, tiro il fiato e mi lascio andare. Manhattan è a due passi e l’incitamento della sua gente comincia a farsi sentire.

Monta il boato di migliaia di persone assiepate dietro le balle di paglia (come fossimo delle formula uno) lungo la curva di ingresso alla First Avenue. Esco alla luce del sole agitando le braccia verso l'alto in segno di incitamento, e la folla risponde strillando "go 'Laudio', go!". Strana pronuncia del mio nome. Abbasso gli occhi e mi accorgo che la "C" è rimasta sul ponte: meglio quella dei polmoni.

La First Avenue si stende implacabile davanti ai miei occhi: più di sei chilometri di saliscendi impietosi che, al pari del Queensboro, hanno stroncato più di un'ambizione. Improvvisamente mi rendo conto che le gambe non girano più come prima: in un modo o nell'altro il ponte dal nome del menga ha riscosso il suo tributo anche da me.

Mi arrabbio; ce l'ho con le mie gambe. Ma come, dico io, vi ho allenato come due gambe da keniano e voi mi trattate così? E' vero, vi ho fatto uscire di casa alle cinque del mattino, vi ho trascinato fuori anche a temperature ignobili, vi ho ammorbato con il pallosissimo anello di due chilometri vicino casa; ma vi ho anche fatto calpestare le strade di mezzo mondo: il Golden Gate, il Quartiere Francese di New Orleans, il Magnificent Mile di Chicago, le sponde della Senna e tanti altri posti che sarebbe troppo lungo elencare. E voi mi mollate ora, proprio quando ho più bisogno di voi? Ingrate, ingrate e ingrate! Non ne vale la pena. Con voi farò i conti dopo: ora è meglio passare il testimone.

La testa

In un suo brano, Morrissey si chiede se è il corpo che governa la mente o se è la mente a governare il corpo. La risposta lui non la dà, ma io adesso la devo cercare in fretta, e deve essere per forza la seconda che ha detto: è la mente che deve governare quelle due disgraziate là sotto, altrimenti sono c**** (scusa Maureen).

Aumento la concentrazione. La gente continua ad incitarmi, ma io rispondo sempre meno. A metà della First non rispondo proprio. Mi muovo cercando di risparmiare energie e limitando al massimo i movimenti.

File di volontari in tunica arancione si sono prodigati sin dal primo chilometro, nei punti di ristoro ufficiali, per alleviare la sete dei concorrenti; solo ora però li cerco continuamente con gli occhi per non fallire un rifornimento.

Cominciano a presentarsi per l'incasso i facili entusiasmi di Brooklyn. Tengo duro e, un passo via l'altro, supero centinaia di persone che procedono rantolando, finché, senza rendermene conto, finisce il saliscendi. Una donna agita un cartello con su scritto "welcome to the Bronx". Parto all'attacco del penultimo ponte calpestando improvvisamente di nuovo qualcosa di morbido: questa volta è uno strato di moquette steso sul ponte per evitare il passaggio sulla griglia di metallo. Ed io che pensavo che il Bronx fosse un quartiere malfamato!

Continuo rimanendo concentrato come un detersivo sgrassante; la testa obbliga le gambe al movimento e loro fanno una fiera resistenza. Ed è a questo punto che una incongruenza toponomastica rischia di mandare tutto a put**** (scusa Maureen): se la First direzione nord era tendenzialmente in salita, la Quinta direzione sud, ad essa parallela, dovrebbe essere tendenzialmente in discesa: manco per il c**** (Maureen ormai non ci fa più caso)!

Una salita si staglia beffarda davanti a me e anche la testa vacilla. Cerco di non pensarci e continuo a correre. Arrivo in cima, giro a destra meccanicamente e mi ritrovo dentro Central Park. La folla è gigantesca, ma è come se non la vedessi. Tante altre persone sono nella mia stessa condizione: forse è proprio per questo che una figlia premurosa ha scelto questo luogo per innalzare un cartello "dad, don't puke". Spero che "dad" non sia questo tizio paonazzo di fianco a me.

Corro in modo disarticolato e comincio a scendere lungo i viali del parco, ma non c'è niente da fare: è lì, vicino alle famose papere che non si sa di preciso dove vadano d'inverno quando il lago è gelato, che la testa segue le gambe nel limbo dell'ingratitudine. Mancano meno di tre chilometri. Mi fermo.

Il cuore

Mani sui fianchi, sputo fatica e tossisco sudore. Cammino lentamente lungo il bordo del percorso e centinaia di persone cominciano a superarmi. Rialzo la testa e improvvisamente rivedo il pubblico: le persone sono di nuovo quelle di Brooklyn e urlano forte il mio nome. Mentono spudoratamente gridandomi "looking good"; mi incitano con calorosi e violenti "almost done". E' quell'"almost" che mi sta uccidendo, dannazione!

Riparto.

Le gambe ormai non le sento più, ma non importa: se insieme alla loro degna compare della testa hanno deciso di abbandonarmi, allora non rimane che affidarsi a chi non tradisce mai: il cuore. Ma la testa ha un sussulto: lei che dovrebbe incitarmi, mi invita di nuovo a fermarmi. I grattaceli di Central Park South sono ancora lontani e lei mi dice che non li raggiungerò mai.

Mi fermo di nuovo: mancano meno di due chilometri.

Faccio pochi passi e, faticando come un bufalo, riparto verso i grattacieli. Li raggiungo sfanc****** la testa, ma uscendo da Central Park mi si para di fronte la salita verso Columbus Circle.

Schianto e mi fermo per la terza volta: manca un chilometro e non ce la faccio più.

Capisco ora come devono sentirsi quelle povere automobili che terminano il carburante e si fermano al lato della strada nonostante le nostre imprecazioni. Ho finito la benzina, non c'è niente da fare.

"Claudio, coraggio, non ora! Non ora!".

La frase in italiano arriva dalla mia destra; volto stancamente la testa e lo vedo: giovane con famiglia al seguito, assiepato con altre migliaia di persone di fronte al Plaza, continua a parlare incitandomi. Dall'espressione della sua faccia deduco l'aspetto della mia. Lo guardo negli occhi e improvvisamente il cuore comincia a battere forte: prende il controllo delle operazioni, impartisce ordini, distribuisce compiti. Le gambe si rimettono in moto, la testa si risveglia.

E' come se questa persona avesse scosso la macchina mandando in circolo le ultime gocce di carburante. Riparto. Senza neanche ringraziarlo (e penso che non ne avrò più la possibilità).

La statua di Cristoforo Colombo è sempre là, ma non fa più paura. La raggiungo di slancio e giro secco verso destra.

Seicento metri. Musica assordante proviene da un palco alla mia sinistra; la gente urla e batte le mani. Di nuovo dentro Central Park.

Quattrocento metri. Non sento più nulla, se non il suono dei miei lamenti.

Trecento metri. Comincia l'ultima salita prima del traguardo. Bestemmio. Sapevo che era lì, ma speravo che qualcuno l'avesse spianata nella notte.

La linea di arrivo appare all'improvviso di fronte a me. Gente bizzarra vestita di arancione batte ritmicamente le mani dettando il ritmo; quasi ci sbatto contro.

Cerco, con gesti scomposti, il tasto per fermare il cronometro; lo trovo e lo spingo; credo di alzare le braccia (ho ancora le braccia?).

Beep beep. E’ il suono del chip: ho passato il traguardo. E' finita.

Ho finito la mia prima maratona.

Oltre il cuore.

Comincio a battere le mani sulle spalle di chi mi sta davanti. Loro mi sorridono considerandolo un gesto di congratulazione: non sanno che cerco semplicemente di sostenermi per rimanere in piedi. Guardo la persona vicino a me: vorrei chiedergli in prestito le gambe, perché le mie sono altrove. Lui mi guarda e penso stia per chiedermi la stessa cosa. Lasciamo stare.

Succede tutto velocemente: mi mettono del domopak addosso, lo fermano con un adesivo, mi mettono al collo la medaglia, scattano una foto, mi tolgono il chip dalla scarpa (io non riesco neanche a chinarmi) e mi mandano verso i furgoni per riprendere la sacca con gli indumenti consegnata prima della partenza.

Procedo piano in mezzo ad una folla di uomini stagnolati: sembro il protagonista di "Fuga di mezzanotte" nella cella comune poco prima della fuga (probabilmente intorno alle 11... scusate...).

Fila disumana per prendere la sacca: ho freddo e lancio improperi in italiano. Il mio vicino, del New Jersey, mi chiede la traduzione. Gliela faccio e lui annuisce cameratescamente.

Prendo la sacca e mi danno anche un sacchetto con cibo e bevande. Mangio un paio di mele, bevo acqua fresca, mi metto una felpa, comincio a non sentire più freddo e, miracolosamente, ritornano le gambe. Evito di uccidere il vitello grasso in loro onore, ma sono comunque contento.

Mi ritrovo da solo a camminare verso il pullman che mi riporterà in albergo. Il sole filtra tra i magnifici colori autunnali del parco e illumina i grattaceli appena visibili attraverso i rami bassi degli alberi. Mi accorgo di nuovo della medaglia al collo e la stringo con forza.

Piango: adesso ho la forza per farlo.

Esco dal parco e mi mischio alla folla festante con ancora il domopak addosso. Il sole è caldo, la gente si ferma e mi dice "congratulations".

New York non è mai stata così bella.

Qualcuno ha detto che a quarant'anni un uomo si cerca un'amante o si compra una spider. Io mi sono regalato una maratona.

Claudio Feliziani

New York, 5 novembre 2006. 42,195 km: 3h58m26s